Fare un orario più esteso al lavoro può diventare obbligatorio: ecco la nuova sentenza che mette in dubbio una vecchia certezza.
Gli straordinari, per legge, sono un’esigenza extra che il datore di lavoro può richiedere ai dipendenti subordinati con lo scopo di completare attività necessarie, ovviamente pagando la differenza oraria con una maggiorazione. D’altro canto, il lavoratore ha tutto il diritto di rifiutarsi, senza incorrere in conseguenze come il licenziamento.

Ma in questo caso non si parla di semplici straordinari, bensì di una vera e propria modifica dell’orario contrattuale. Si parla di trasformare un part-time in un full-time, una decisione che non si può certo prendere alla leggera. Nella maggior parte dei casi, infatti, chi sceglie l’orario ridotto lo fa per motivi personali, per conciliare meglio l’equilibrio tra lavoro e vita privata, pur consapevole di una retribuzione inferiore.
Basti pensare a quante mamme lavoratrici scelgono il part-time per riuscire a gestire la propria quotidianità. Ed è proprio qui che si tocca un tasto delicato, perché per legge un datore di lavoro non può modificare unilateralmente l’orario di lavoro. Eppure, l’ultima sentenza ha dato ragione all’azienda, portando la dipendente al licenziamento immediato.
In part-time e rifiuti il full-time? Ora si può essere licenziati davvero
Per anni si è creduto che chi lavora part-time non potesse essere costretto a passare al full-time. E invece, con la recente sentenza n. 9901/2025 della Cassazione, qualcosa cambia. O meglio: si chiarisce.

Il punto è semplice. Il part-time non è un contratto di ‘serie B’, ma uno strumento tutelato dalla legge, pensato per favorire la conciliazione tra lavoro e vita privata. Ma quando un’azienda, per esigenze organizzative concrete e dimostrabili, ha davvero bisogno di aumentare l’orario di un dipendente – e non ha altre soluzioni valide – allora il rifiuto può portare a un licenziamento legittimo.
È successo a una dipendente addetta alla contabilità che, alla richiesta dell’azienda di passare al tempo pieno, ha detto no. Il datore di lavoro, dopo aver raccolto prove, documenti e dimostrato che non c’erano alternative praticabili (né possibilità di ricollocarla altrove), ha proceduto con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La Corte ha dato ragione all’azienda. Perché? Perché non basta dire ‘non voglio’: se l’aumento dell’orario è l’unico modo per far fronte a un aumento di lavoro reale, e tutto è documentato, allora il recesso è legittimo.
Ovviamente il lavoratore può impugnare, ma prima conviene capire se l’azienda ha davvero fatto tutto secondo le regole. Il fatto è che quando la buona fede è dimostrabile – e le alternative mancano – il diritto di dire no al full-time non è più una certezza assoluta.